Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha portato una ventata di chiarezza per quel che riguarda l’utilizzo dei bollettini postali del fisco: in particolare, la pronuncia è la numero 25591 dello scorso mese di dicembre ha messo in luce come sia possibile fare ricorso in Commissione Tributaria contro questo specifico mezzo di pagamento, il quale può quindi essere considerato come un vero e proprio atto impositivo con cui l’Agenzia delle Entrate pone in essere la propria pretesa fiscale. Si tratta, a conti fatti, di una vera e propria equiparazione con il consueto avviso di liquidazione, il quale svolge infatti le stesse funzioni appena elencate. Come si è arrivati alla sentenza della Suprema Corte?
Anzitutto, è stato sottolineato come il processo tributario dei giorni nostri sia profondamente cambiato rispetto agli anni passati, per lo meno dal momento in cui è stato introdotto un apposito testo normativo, la legge 448 del 2001 (“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, ovvero la legge finanziaria del 2002); in effetti, l’impugnazione di determinati atti è piuttosto libera e senza limiti. In aggiunta, la sentenza in questione è andata in direzione nettamente contraria rispetto a quanto disposto dalle Ctr, le quali in più occasioni avevano accolto le richieste della nostra amministrazione finanziaria, sostenendo che il bollettino non faceva parte degli atti per cui esiste una possibilità di ricorso.
Il conto corrente postale, invece, va trattato alla stregua di un normale atto impositivo, un documento con il quale le Entrate sono in grado di esercitare nella sua pienezza la pretesa dei tributi. Una delle principali conseguenze si riferisce al Decreto Legislativo 546 del 1992, visto che l’articolo 19 di questo testo (atti impugnabili e oggetto del ricorso) verrà interpretato in modo più ampio, con una elencazione degli atti non più tassativa, al fine di far funzionare in maniera corretta la pubblica amministrazione.