La retribuzione che viene percepita in nero non è immune dagli adempimenti fiscali: è questa, in sintesi, la conclusione a cui è giunta la Corte di Cassazione con una recente sentenza, la quale ha chiarito una volta per tutte quali sono gli obblighi di questa casistica. Questi doveri tributari, comunque, non riguardano soltanto i lavoratori, ma anche i datori di lavoro. In pratica, il contribuente in questione deve versare al Fisco le imposte sui propri incassi, dichiarando di conseguenza i relativi imponibili; Piazza Cavour si era trovata a giudicare un caso in cui una dipendente non aveva provveduto alla compilazione della propria dichiarazione dei redditi in relazione proprio a tale tipo di compensi. In realtà, è stata appurata la buona fede, spettava infatti al datore di lavoro far sapere che le imposte dovute non erano state trattenute.
Dunque, la situazione che si è presentata è stata quantomeno ambigua, visto che, per una grave omissione del sostituto d’imposta si rischiava di far passare dei guai a un contribuente ignaro e che non aveva omesso alcun tipo di dichiarazione. In effetti, il comportamento della lavoratrice è stato inizialmente ritenuto corretto, con tutte le opportune firme delle ricevute a quietanza in relazione ai salari, così da porre in essere una gestione chiara e trasparente dal punto di vista fiscale.
Il primo e il secondo grado erano pertanto andati a favore di questo soggetto, ma la nostra amministrazione finanziaria ha voluto percorrere anche l’ultimo grado di giudizio con un proprio ricorso: la pronuncia della Suprema Corte deve essere letta con attenzione, nel caso si dovessero ripetere situazioni simili, dato che le omissioni del datore non esonerano l’obbligato principale a versate le tasse. Il che equivale a dire che la nozione di “lavoro in nero” va monitorata in maniera costante. Un aiuto molto valido è fornito dalla consegna del Cud, il quale identifica un rapporto di lavoro genuino e un assoggettamento alle imposte.