Quando un giornalista va in pensione, uno dei diritti più importanti è quello relativo al trattamento previdenziale: quest’ultimo, in particolare, deve essere equiparato e cumulato con i redditi da lavoro dipendente, oppure, in alternativa, con quello autonomo. Secondo la Corte di Cassazione, è questa l’impostazione da seguire in tal senso, nonostante l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani abbia disposto in maniera diversa, vale a dire la in cumulabilità parziale. La sentenza 1098 di ieri da parte dei giudici di Piazza Cavour ha spazzato via un bel po’ di dubbi, ma cerchiamo di fare ordine.
Secondo gli ermellini, infatti, l’Inpgi non è altro che una assicurazione sostitutiva dell’Assicurazione Generale Obbligatoria, quindi le regole che devono essere rispettate sono le stesse che valgono per l’Inps, per lo meno quando è la legge a stabilirlo. Per l’appunto, il cumulo è uno di questi casi. Tutto è nato a seguito di un ricorso dell’istituto di previdenza giornalistica, il quale non era affatto d’accordo con alcune richieste avanzate da un giornalista pensionato; quest’ultimo, in pratica, aveva avanzato l’ipotesi di una riattivazione della pensione e la Corte di Appello gli aveva anche dato ragione. La corte in questione ha seguito un ragionamento piuttosto simile a quello della Cassazione, ricordando le norme dell’Ago e mettendo da parte quelle fissate dall’Inpgi.
Tale istituto, invece, aveva ritenuto che il testo normativo a cui fare riferimento fosse il Decreto legislativo 509 del 1994 (“Trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza”), sottolineando inoltre l’obbligo a carico degli enti privatizzati in merito all’equilibrio dal punto di vista finanziario. Secondo la Suprema Corte, l’Inpgi non ha torto, ma anche il pensionato-giornalista ha ragione in tal caso: il rapporto di lavoro è la discriminante di specie, con l’ente in questione che deve essere considerato un qualcosa di sostitutivo per la sua deroga alla regola generale.