La vendita di una qualsiasi testata giornalistica, con i suoi beni mobili e i debiti, è uguale in tutto e per tutto a un trasferimento del marchio: per questo motivo, il tributo di riferimento è l’Imposta sul Valore Aggiunto, in quanto si sta parlando di una vera e propria prestazione di servizi e non ha alcuna importanza il fatto che questo trasferimento sia avvenuto in maniera congiunta rispetto a quello dell’azienda oppure in modo separato. Quello che conta è che la cessione di cui si sta parlando rimanga soggetta all’Iva, mentre l’azienda all’imposta di registro in valore fisso.
Sono queste le conclusioni a cui è giunta la Corte di Cassazione in una sua recente sentenza (risale a poco meno di un mese fa). Tutto è nato da una scrittura privata relativa al 1997, quando vi fu appunto una cessione di un ramo di azienda, con una società non meglio precisata che aveva venduto a un’altra costituita da poco la testata giornalistica, alcuni arredi d’ufficio e debiti molto ingenti. Allo stesso tempo, la società cedente aveva provveduto a rilevare in locazione dalla cessionaria la testata e i beni strumentali per un determinato importo annuo, a cui aggiungere l’Iva. La nostra amministrazione finanziaria è stata poi costretta a recuperare quasi 4,1 milioni di euro relativa alla tassa evasa.
Nei vari gradi di merito, comunque, si era anche ritenuto che questa operazione non dovesse essere soggetta a Iva. Al contrario, il Fisco non l’ha pensata allo stesso modo e per questo motivo si è arrivati al ricorso per Cassazione. I giudici di Piazza Cavour hanno accolto quest’ultimo, ritenendo come la testata giornalistica, in quanto segni distintivo della pubblicazione periodica, rappresenta solamente un elemento dell’azienda. Trattandosi di un bene immateriale, non può dar luogo a un trasferimento aziendale e può quindi essere equiparata al marchio, come accennato in precedenza (altre pronunce degli “ermellini” erano andate nella stessa direzione).