Il fisco può avviare indagini di natura finanziaria nei riguardi di lavoratori autonomi e titolari di reddito di impresa. Sono infatti considerati come maggiori compensi o ricavi i prelevamenti di cui non viene indicato il beneficiario o i prelevamenti non contabilizzati.
Si ritiene che la somma prelevata, in assenza di giustificazione, sia stata utilizzata per acquisti in nero da cui è scaturita la produzione di beni o servizi, a loro volta, venduti in nero. La versione dello schema di decreto di riforma delle sanzioni amministrative tributarie, che è stata approvata dal Consiglio dei Ministri dello scorso 4 settembre e che ora è in attesa di un secondo parere da parte delle commissioni parlamentari, convalida infatti la presunzione legale che attribuisce ai prelevamenti non giustificati dei titolari di reddito di impresa il valore di ricavi non dichiarati.
In questa maniera viene rimossa la sanzione dal 10 al 50 percento dell’importo del prelevamento prevista in caso di omessa o inesatta indicazione da parte del beneficiario dei prelevamenti non transitati nelle scritture contabili, che al contrario era stata prevista nella prima versione del decreto attuativo della delega fiscale. Con la sentenza 228/2014, la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 32 del Dpr 600/1973 nella parte in cui osserva che i prelevamenti bancari non giustificati da parte dei titolari di reddito di lavoro autonomo sono considerati «compensi» non dichiarati. Secondo la Corte Costituzionale, difatti, viene valutata arbitraria l’equiparazione del lavoratore autonomo all’imprenditore.
I titolari di reddito di impresa interessati da controlli del fisco fondati sui versamenti e sui prelevamenti bancari non giustificati devono fornire la prova contraria, una prova che non può essere generica, essendo appunto necessaria una dimostrazione sulle «diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi», come recentemente precisato dalla Cassazione con la sentenza 16948/2015.