La decisione potrebbe sembrare strana, ma dato che proviene dal massimo grado di giudizio, la Corte di Cassazione, non si può che prenderne atto. Quasi tre settimane fa, infatti, i giudici di Piazza Cavour hanno tentato di tracciare un limite tra il reato di emissione e quello che prevede lo sfruttamento di fatture relative a operazioni inesistenti: in pratica, come stabilito in maniera puntuale dagli “ermellini”, il contribuente si macchia del reato di emissione di fatture false quando le sottopone a contabilità dopo averle ricevute, nonostante non le abbia inserite all’interno della dichiarazione dei redditi.
Tutto è nato da alcune verifiche poste in essere dalla Guardia di Finanza, la quale aveva fatto emergere l’emissione di fatture per operazioni anche parzialmente inesistenti e in relazione a delle somme di denaro piuttosto alte. I documenti utilizzati in tal senso erano stati ricevuti e annotati in bilancio. Oltre a questi reati, inoltre, ne venivano commessi degli altri, quali le dichiarazioni fraudolente con tanto di elementi passivi del tutto fittizi. I periodi d’imposta esaminati in questo caso sono stati quelli compresi tra il 2005 e il 2007. Il riesame aveva affibbiato al soggetto indagato gli arresti domiciliari, lasciando intendere un punto di vista ben preciso.
Lo stesso contribuente si è però rivolto alla Suprema Corte, ricordando come nel suo caso fosse stato applicato in maniera erronea l’articolo 9 del Decreto legislativo 74 del 2000 (“Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”), il quale si riferisce proprio al concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Secondo la Cassazione, comunque, l’ipotesi contemplata è quella di un contribuente che ha annotato le fatture false nella contabilità, senza poi inserirle nella dichiarazione: la casistica è quindi diversa da quella del concorso tra chi ha emesso la fattura e chi l’ha sfruttata nella dichiarazione stessa.
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