La vicenda relativa a Vanna Marchi è venuta a galla verso la fine del 2001: è da quel momento, infatti, delle truffe perpetrate mediante le vendite televisive, reati per i quali c’è stata una condanna, della stessa Marchi e della figlia Stefania Nobile, a dodici anni complessivi di reclusione. Ebbene, il nome citato poc’anzi ritorna di stretta attualità, ma in questo caso per una questione relativa al fisco e alle tasse. Che cosa è successo di preciso? La Corte di Cassazione ha provveduto a rigettare il ricorso che era stato presentato dall’amministrazione finanziaria del nostro paese, una richiesta che era stata avanzata al fine di tentare un recupero, seppur parziale, ma comunque sempre consistente, delle imposte dovute dall’imbonitrice della televisione, la quale si trova attualmente nel carcere di Bologna. L’obiettivo dell’Agenzia delle Entrate era abbastanza chiaro in questo senso, ma il modus operandi è stato totalmente sbagliato.
In effetti, per ottenere la giusta riscossione, sarebbe stato necessario applicare ai redditi che la Marchi aveva percepito nel periodo d’imposta 1982 un’aliquota pari al 12,38% e non del 6,38% com’è poi realmente avvenuto. Inoltre, è stato commesso un ulteriore sbaglio, vale a dire la mancata presentazione, all’interno del ricorso, dell’avviso di accertamento, in modo che si potesse comprendere in maniera chiara l’erroneità dei calcoli tributari in questione. La doppia svista, dunque, è costata molto cara al Fisco. Un ricorso presentato in tal maniera non poteva che essere respinto, ma soprattutto, cosa più importante, le imposte non potranno essere più recuperate.
Come ha spiegato la Suprema Corte, poi, è stata punita anche la brevità del ricorso stesso: le motivazioni, infine, sono altrettanto illuminanti, dato che la Corte, quando si trova di fronte a casi del genere, con la presenza di errori di tipo interpretativo, non può provvedere all’esame diretto dell’atto, in quanto non si tratta di una sua competenza specifica e peculiare.