La fine di un rapporto di lavoro dipendente è un’eventualità piuttosto triste, ma comunque frequente e possibile: ecco perché la Corte di Cassazione ha voluto spiegare alcuni chiarimenti in merito alla ritenuta d’acconto e alla tassazione separata che devono essere applicate alle somme ottenute dal lavoratore per il risarcimento di un licenziamento non legittimo. La sentenza in questione è la numero 26385 e risale ormai allo scorso 30 dicembre. In pratica, la pronuncia della Suprema Corte si è resa necessaria dopo che un dirigente industriale ha richiesto il rimborso del denaro versato a titolo Irpef (la tassazione separata appunto), visto che era stato licenziato senza alcun preavviso; il primo grado ha visto trionfare proprio il contribuente appena citato, il quale si è così visto risarcire l’indennità e sulla stessa linea di pensiero si è accostata anche la Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia Giulia.
Il verdetto si è però completamente ribaltato con la Cassazione, dato che tutti i tipi di indennità, comprese quelle da invalidità o da morte, rappresentano dei veri e propri redditi da lavoro dipendente, quindi spetta allo stesso contribuente coinvolto dimostrare che il risarcimento non è soggetto ad alcuna imposizione fiscale (il carattere risarcitorio non è un elemento sufficiente in tal senso).
Pertanto, la Corte ha fatto leva soprattutto su tre fattori essenziali, vale a dire il modo con cui viene abitualmente tassata l’indennità supplementare, la natura del reddito di lavoro dipendente e l’onere della prova, il quale spetta soltanto al contribuente che intende escludere l’assoggettabilità tributaria. Bisogna infine sottolineare come gli spunti normativi per la sentenza siano stati quelli relativi al Decreto Legge 41 del 1995 (“Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica e per l’occupazione nelle aree depresse”), in particolare l’articolo 32, il quale si riferisce proprio alle transazioni finanziarie e alle somme risarcitorie delle imposte sui redditi (Dpr 917 del 1986).