Allontanarsi dal posto di lavoro per una pausa caffè può legittimare il licenziamento del dipendente,. Lo ha stabilito la sezione lavoro della Corte di Cassazione, dando ragione al Credito Emiliano nella causa di licenziamento di un impiegato di banca siciliano. Linea dura contro quei dipendenti che allontanandosi per un break creino rallentamenti al lavoro.
Pochi giorni fa è giunta una comunicazione da parte della Corte di Cassazione, stabilendo che il licenziamento è legittimo se il dipendente si allontana dal posto di lavoro per una pausa caffè.
Il tutto è nato quando nel 1998 il dipendente di una ditta aveva lasciato la cassa aperta ed i soldi incustoditi, recandosi al bar senza registrare l’ultima operazione. La Corte ha definito il comportamento come “negligente e incurante della fila di quindici clienti in attesa, lasciando la cassa aperta per andare in pausa caffè”.
A niente è servita la dichiarazione del cassiere, che ha definito come una “prassi” aziendale, quella dei dipendenti che si allontanavano per un caffè “senza apposito permesso”, coprendosi a vicenda. L’aver consumato un caffè al bar il giorno dopo, poi, “non avrebbe sortito alcun effetto sui quindici clienti in attesa, al massimo determinando un leggero ritardo nelle operazioni: in ogni caso operavano altre casse”. La Cassazione però ha confermato il licenziamento, definendo “senza rilievo” l’esistenza della prassi aziendale invocata dal lavoratore, in quanto non incide sulla valutazione della negligenza della condotta accertata in secondo grado.
Inoltre, la Corte ha dichiarato che «la censura alla decisione impugnata di non avere tenuto conto che al momento dell’allontanamento» dell’impiegato «per la pausa caffè, operavano più casse, non è decisivo perché la presenza di una pluralità di casse non esclude comunque che il venir meno di una cassa rallentava le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i clienti in fila che comunque erano in numero cospicuo né incide sulla valutazione della negligenza della condotta del dipendente espressa nella sentenza di secondo grado»