È ormai passato quasi un anno dal lancio, da parte del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, della cosiddetta Robin Tax: il 3 giugno 2008, infatti, veniva ideato questo particolare tipo di imposta, con l’intento di tassare petrolieri, banche, assicurazioni e cooperative per poi alleggerire conseguentemente il gettito fiscale dei soggetti con redditi più bassi. Si può dunque stimare un primo, sommario, bilancio di questa interessante iniziativa? È il bilancio annuale dell’Eni a illuminarci in tal senso: nel 2008, le aziende dell’ente hanno contabilizzato imposte correnti sul reddito per 1,91 miliardi di euro, mezzo miliardo in meno rispetto a un anno prima. Il bilancio mette in luce come, senza la Robin Tax, esse avrebbero pagato ancor meno imposte: ma sono due i motivi che possono scontentare il ministro. Anzitutto, Tremonti contava molto sull’apporto della tassa per far respirare i conti pubblici; le previsioni parlavano infatti di un gettito che sarebbe salito fino a 4,6 miliardi di euro, quindi una misura imponente, ma non tutti i petrolieri sono stati colpiti allo stesso modo.
Un esempio su tutti è quello di Saras, la compagnia di proprietà di Massimo Moratti, la quale, con un’aliquota sostitutiva del 16% avrebbe dovuto sborsare ben 50 milioni; il crollo del greggio però ha ridotto il costo di questa voce a soli 5 milioni, una somma insignificante per i ricavi della compagnia. Il secondo motivo che dovrebbe preoccupare Tremonti è il fatto che Eni ora dovrà pagare all’estero tasse correnti sul reddito per 10,1 miliardi di euro, arricchendo in tal modo, quindi, soprattutto i governi stranieri.
Se forse si tratta di un bilancio troppo affrettato, bisogna però dire che nell’applicazione della Robin Tax si deve tener conto anche di questi fattori, altrimenti c’è il rischio che questa imposizione faccia solo il solletico ai grandi monopoli: il pericolo è che si possa ottenere una compensazione dai mancati ricavi penalizzando aziende che contribuiscono a sostenere le finanze cittadine.
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