Cassazione: nessuna imposta di successione per l’edificio storico

 La storia della tassa di successione non è poi così lontana nel tempo: tale imposizione fiscale ha subito una svolta importante verso la fine degli anni Novanta, con delle franchigie ovviamente fissate in lire, poi alcune importanti novità hanno fatto tornare alla ribalta il tributo nel 2006 e nel 2007. La tassa in questione è stata esaminata a fondo da una delle ultime ordinanze della Corte di Cassazione (per la precisione, si tratta della numero 25366), visto che si è ritenuto necessario comprendere la sua applicazione nei casi di immobili di interesse storico e culturale. Ebbene, secondo la Suprema Corte, l’imposta di successione non rientra nel caso di specie, una ipotesi che rimane valida perfino quando il contribuente non indica nella relativa dichiarazione la categoria dell’edificio. Tutto è nato da un ricorso dell’Agenzia delle Entrate contro una sentenza della Ctr della Sardegna.

Cassazione: anche gli interessi concorrono a formare il reddito

 Il fatto che gli interessi relativi a una mora di pagamento non siano stati percepiti quando si parla di crediti con società dello stesso gruppo, comporta, per il contribuente interessato, un onere nell’ipotesi in cui la mancata contabilizzazione sia evidentemente antieconomica: si tratta di una importante precisazione che è stata effettuata dalla Corte di Cassazione, mediante la pubblicazione di una sentenza dello scorso 7 maggio. La pronuncia della Suprema Corte si era resa necessaria alla luce di una contestazione, da parte della Guardia di Finanza, riguardo degli interessi su crediti nei confronti dei clienti. In quel caso, infatti, l’ufficio coinvolto aveva dovuto rettificare il maggior reddito all’impresa; il contribuente aveva vinto la sentenza di secondo grado, ma contro questa decisione si era opposta l’Agenzia delle Entrate, portando come motivazione la violazione del Tuir proprio in questo specifico ambito. Il comportamento antieconomico era dettato dal fatto che non veniva usato lo stesso criterio di addebito nei riguardi di una società del gruppo, un modus operandi che consentiva di ritenere tassabili gli interessi del caso.

 

Il brogliaccio permette l’accertamento induttivo dell’Iva

 Il brogliaccio contabile che viene trovato presso i clienti rende inutile qualsiasi tipo di ispezione sulle relative scritture: in questo caso, infatti, il Fisco è in grado di accertare in maniera induttiva l’imposta sul valore aggiunto, così come è stato precisato dalla sentenza 23585 che la Corte di Cassazione ha provveduto a pubblicare lo scorso 6 novembre. Il fatto che ha portato alla pronuncia della Suprema Corte si riferisce a una verifica effettuata nei confronti di una società: nel corso dell’ispezione era stato rinvenuto appunto il brogliaccio, documento da cui emergeva l’omessa contabilizzazione dei corrispettivi per la cessione dei beni. In base a quanto rilevato in questo modo, l’ufficio finanziario provvedeva quindi a notificare l’avviso di rettifica per il recupero degli incassi che non erano stati dichiarati. Successivamente, l’avviso era stato respinto per mancanza di fondatezza della pretesa erariale. La sentenza di primo appello dava ragione alla società e contro questa pronuncia le Entrate avevano appunto presentato ricorso in Cassazione.